giovedì 8 marzo 2012

ALIMENA e quel crack d’altri tempi

Un milione di lire per illuminare la città
Politica e intrecci finanziari in municipio

Di Saverio Paletta su Calabria ora del 08/03/2012

Cosenza, nell’ultimo decennio del 1800, non passa un bel momento. È piccola, non tocca i ventimila abitanti, e l’espansione urbana è di là da venire.
L’unico cenno di modernità è lo sviluppo della pianata del Carmine, una via lastricata che parte da una piazzetta che oggi non esiste più. La città nuova non esiste ancora. In compenso, quella vecchia inizia a declinare. Neppure i notabili passano un bel momento ma restano i protagonisti. Far progredire una città così, che campa di un commercio minuto basato sull’agricoltura povera del circondario, non è facile. I soldi nelle casse comunali sono pochi e ricorrere all’indebitamento è giocoforza, se si vuol realizzare qualche opera pubblica. Difatti, la Cosenza del 1890 è condizionata da un debito di un milione di vecchie lire, contratto nel 1877 dal sindaco Francesco Martire con il banchiere napoletano Gaetano Anaclerio per finanziare l’illuminazione pubblica. Si parla di lire vere che, secondo un motto dell’epoca, “fanno aggio” sull’oro.
Il contratto è un vero e proprio capestro: il Comune, in cambio del milione, che equivale a oltre 20 milioni di euro odierne, emette 3.036 obbligazioni di cinquecento lire l’una, da rimborsarsi in cinquant’anni. Le pratiche della finanza creativa sono vecchie quanto la contabilità pubblica, come si vede. Leader quasi indiscusso della politica dell’epoca è Luigi Miceli, un esponente della sinistra più dura.
Originario di Longobardi, già mazziniano e garibaldino, Miceli ha tutti i galloni risorgimentali. Difatti, dall’Unità a fine secolo, è un habitué della Camera. Ha un larghissimo seguito personale, che gli avversari bollano come “clientela”. A Cosenza Miceli conta.
Al punto di appoggiare Martire alla carica di sindaco, sebbene la sua lista fosse stata battuta alle urne da quella del conservatore Francesco Muzzillo. I sindaci, è doveroso precisarlo, li fa ancora il re. La mediazione di Miceli puntella Martire, al punto che nella sua giunta entrano vari “muzzilliani”. Il prestito, opportuno o
no, viene sottoscritto. E chi non è d’accordo deve abbozzare. Come Antonio Coiz, il preside del liceo Telesio, trasferito in Puglia pochi mesi prima del prestito.
Gli avversari di Miceli in città, cioè quasi tutti gli iscritti alla loggia Bruzia, sono all’angolo. Perché possano
prendersi la loro rivincita ci vorrà un decennio. Nel 1888 il clima politico è cambiato. L’epoca di Depretisè finita mentre l’astro di Francesco Crispi è forte, non ancora offuscato dal massacro di Adua e dallo scandalo della Banca romana. Miceli è ministro ai Lavori pubblici ed è lo stesso Miceli di sempre. Anche Crispi
è Crispi: decisionista e dirigista, continua a servirsi dei metodi di Depretis. Infatti Miceli è ministro con lui come lo è stato con chi lo ha preceduto. Con una differenza, che va a suo svantaggio: dal 30 dicembre del 1888 la nomina dei sindaci non è più di competenza del re e passa al consiglio comunale. Le logge cosentine,
la Bruzia, guidata dal patriota Pietro De Roberto, e la Telesio, nata a Rogliano ma trasferitasi nel capoluogo, preparano il contrattacco: il settimanale “La lotta”, organizza un meeting al Teatro Garibaldi.
Il motivo formale è quello di sempre: chiedere un reggimento dell’esercito di stanza in città. La sostanza è diversa: il comitato organizzatore è presieduto da De Roberto e il grosso del pubblico è costituito dagli esponenti delle due società operaie. L’una, filomassonica, guidata da Ippolito Mirabello, l’altra dal costruttore Roberto Palaia. È il 3 marzo 1889.
Michele Fera apre i lavori, e chiede di tutto e di più a Miceli e ai suoi deputati. Si arriva ai ferri corti. E la politica cosentina, come sempre, ne risente. Si va alle amministrative di novembre con la solita proliferazione di liste: 20 per un totale di 71 candidati. Vincono i candidati protetti dalla Bruzia, che ottengono 16 consiglieri su 30. Un risultato prevedibile, perché nel frattempo la loggia ha lavorato con finezza: si è inserita nelle società operaie, dove ha fatto proselitismo, e ora profitta dell’allargamento della base elettorale. Il problema, a questo punto, è fare il sindaco, visto che Cosenza non ne ha uno da tre anni e che, a farne le veci, è stato il barone Giuseppe Campagna, come “prosindaco”. La gatta da pelare è tosta, anche perché c’è da fare le pulci alle casse, per segnare la “discontinuità”. Infatti, il finanziere Angelo Quintieri, aristocratico bruzio di origine caroleano, rifiuta la poltrona di sindaco. Che viene offerta a un altro notabile: Bernardino Alimena. Figlio di Francesco, un principe del foro di Cosenza, Alimena non è avvocato: è addirittura un giurista. E non di scarso livello: libero docente a Napoli, ha creato una nuova dottrina del diritto penale, con cui rivaleggia col criminologo Cesare Lombroso. Il professore è un galantuomo stimatissimo: chi meglio di lui per risanare
le casse e, soprattutto, per prendersene le relative rogne? In giunta, con lui ci sono Mirabello, Tommaso Conflentie Fortunato Benvenuti, tre massoni. Gli altri due sono Michele Parise e Francesco Santelli. Alimena fa quel che può: cerca di far pagare le tasse a chi finora non l’ha fatto e, soprattutto, denuncia i conti: il vecchio milione di debiti, è salito a tre milioni e rotti, grazie alle clausole del prestito e all’inflazione. E Cosenza, come spesso accade, è insolvente: ha saldato solo 220 cartelle. Il debito si protrarrà fino al 1924. Alimena lavora di forbici, ma perde i pezzi della sua giunta da subito: vanno via Benvenuti e Parise. Il peggio deve ancora arrivare: quando Alimena mette mano alla pianta organica del personale del Comune, la maggioranza si sbanda.
E il sindaco subisce in pochi mesi due rimpasti. Ad Alimena resta solo l’appoggio di De Roberto. Che muore nel ’90. Nella Bruzia è uno stillicidio di defezioni. E al professore di Napoli, che non è tagliato per la politica, non resta che dimettersi. È il 24 maggio 1890. Nominato a novembre, Bernardino Alimena è restato in carica sei mesi. Vittima dei conti e, soprattutto, della rissosità cosentina, il professore torna ai suoi libri.

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