domenica 4 dicembre 2011

Quando i cosentini “smanettavano” sul Commodore 64

I videogiochi pionieristici degli anni ’80 rivivono in una mostra a Palazzo Arnone

Di Camillo Giuliani su Calabria ora del 4/12/2011

Nella preistoria dei videogiochi non c'erano trame da film: pizze gialle a cui mancava una fetta si muovevano attraverso labirinti, mangiando pallini o frutta ed evitando -o divorando anche quelli, a seconda delle circostanze- quattro fantasmi colorati. Nella preistoria dei videogiochi la grafica non era in alta definizione e bisognava affidarsi alla propria fantasia per trasformare una manciata di quadretti colorati nei personaggi e
gli universi al centro di un'avventura da vivere sullo schermo. Nessuno notava quelle pecche, però, perché i
videogiochi preistorici, pur nella loro semplicità (o forse proprio per quella) erano divertentissimi. Per averne la prova, fate un salto a Palazzo Arnone, dove ieri pomeriggio si è tenuta l'inaugurazione di
“Insert coin - Retrogaming 2011”, una mostra che terminerà l'ultimo giorno dell'anno.
A curarla, l'associazione culturale”Verde binario”, che, in quasi un decennio di attività, ha raccolto e restaurato tanto materiale da poter realizzare un museo di archeologia informatica. «Un lavoro di ricerca duro, fatto per raccontare la storia del primo ingresso dei computer nelle nostre case», spiega Irene De Franco, presidente di “Verde binario”.
Le  sezioni dell'esposizione, ospitata nella sala Angela Mazzuca, sono tre: le prime due dedicate all'arte, con
un'esposizione di Mail Art e un'altra in cui si potrà interagire con le opere inedite di dodici autori, sul tema delle contaminazioni tra linguaggio artistico e videoludico; la terza, più tecnologica, ospita invece una
raccolta di computer e console prodotte negli anni '70 e '80, macchine perfettamente funzionanti, a disposizione dei visitatori che vorranno usarle.
«La mostra è interamente giocabile, cosa non banale se si pensa alle condizioni in cui abbiamo ritrovato parte del materiale: un Vic 20 esposto, per esempio, era in mezzo a vestiti dismessi donati in beneficienza», racconta De Franco.
I più giovani potranno sfidarsi a Pong, il primo videogioco mai prodotto, o magari fare una partita a “Burger Time” sull'Intellivision, costruita quando a contendersi il mercato dei giocatori non erano Sony, Microsoft e Nintendo (che comunque si dava da fare già all'epoca), ma Atari, Mattel e Commodore. Quelli che trent'anni fa erano ancora ragazzi avranno l'occasione di fare un salto nel passato, rigiocando a titoli che hanno fatto
la storia dell'intrattenimento domestico, da Space Invaders al primo Mario Bros . I visitatori troveranno cimeli come “Ping O Tronic” della Zanussi, la prima console costruita in Italia, o personal computer che oggi possono sembrare antidiluviani, ma che appena usciti rappresentavano lo stadio più avanzato dell'informatica, come l'Apple IIe (il progenitore, costruito nel 1983, degli attuali Mac) o i vecchi Ibm. La mostra- realizzata con la collaborazione di Unical, Mediocrati, Comune, Provincia e Sovrintendenza- è gratuita. Al massimo, se avete ancora da qualche parte una moneta da 200 lire, portate quella. C'è un Pacman da sala giochi che vi
aspetta.



C’erano una volta Marcello e la Matriarca

Ere videoludiche fa, il computer di culto non aveva come stemma una mela - Steve Jobs vendeva già, ma
soltanto a pochi facoltosi professionisti- ma una grande C del colore del mare, affiancata da una bandierina
rossoblu: era il Commodore 64, che, con le sue 17 milioni di copie vendute nel mondo, rimane il più grande
successo commerciale di tutti i tempi nel campo dell'informatica. Per i nati negli anni '70 era e sarà sempre
semplicemente “il 64”, un prodigio della tecnica con i suoi 16 (!) colori, una macchina che offriva migliaia di
titoli a cui giocare, ma anche la possibilità di sentirsi programmatori provetti digitando comandi in linguaggio Basic. I giochi si compravano nelle edicole sparse per la città. Con cifre tra le tre e le 10mila lire, portavi a casa una cassetta (identica a quelle audio) e il libretto allegato, in cui ognuno annotava i mitici “giri”: ogni cassetta, infatti, conteneva più di un gioco e bisognava conoscere esattamente da che punto (il numero di giri) del nastro il registratore avrebbe caricato la partita. Non c'era ancora internet, ma esisteva già la pirateria. Si accendeva la radio e si registravano su nastro degli strani rumori trasmessi dalle emittenti in orari prestabiliti:
altro non erano che i giochi che si compravano dal giornalaio, diffusi gratis dai dj dell'epoca. I luoghi sacri dei
videogiocatori cosentini erano il negozio di Sirangelo - quanti joystick avrà venduto in quegli anni? - e tre sale
giochi: la “Formula 1”, vicino al Citrigno, e le due di Via Mari, la “Matriarca” e “Marcello” (dal nome del pro-
prietario). Bastava cambiare 1000 lire in 5 monete da 200 per divertirsi tutto il pomeriggio lì dentro, distruggendo i mattoncini di Arkanoid, uccidendo gli zombies di Ghosts and Goblins, trasformandosi in ninja come il protagonista di Shinobi.
I genitori non le vedevano di buon occhio, ma per i ragazzi erano una seconda casa. Oggi, scherzi del destino, in sala giochi vanno quasi solo gli adulti. A rovinarsi con videopoker e slot machines, però.

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