martedì 14 agosto 2012

BANDA LARGA Parte la sfida della fibra ottica

L'internet superveloce può far risalire il Pil, ma chi paga?

SU IL FATTO QUOTIDIANO DEL 14/08/2012 di Giorgio Meletti

Il governo dei tecnici, nella sua crociata per la riduzione del debito pubblico, sembrerebbe pronto a privatizzare anche i marciapiedi, se solo si intravvedesse la possibilità tecnica di applicare una tariffa ai pedoni. Nello stesso tempo il nuovo braccio armato della politica negli affari, la Cassa Depositi e Prestiti, è pronta a sua volta a comprare qualsiasi cosa. Già proprietaria delle rete elettrica di Terna, ha adesso in cantiere l'acquisto di Snam Rete
Gas dall'Eni (una sorta di rinazionalizzazione) edella Fintecna dal ministero dell'Economia. E punta all'operazione più ambiziosa: diventare padrone e arbitro della rete telefonica, il gioiello della corona di Telecom Italia.

Telecom condannata al rame

Alla privatizzazione datata 1997 sono seguiti 15 anni di grandi manovre per far tornare nell'alveo statale il reticolo di fili di rame con cui gli italiani parlano al telefono. Alle ragioni inconfessabili che hanno animato destra e sinistra (dal piano Rovati che coinvolse il governo Prodi nel 2006 alle spallate del berlusconiano Paolo Romani nell'ultimo triennio) se ne affianca una sensata: Telecom Italia non è in grado di fare gli investimenti che servono al Paese. L'ex monopolista telefonico non se la passa bene da quando il brillante finanziere Roberto Colaninno l'ha scalata con soldi presi in prestito dalle banche per poi scaricare tutto il debito dentro il gruppo telefonico. Dopo di lui è toccato alla Pirelli di Marco Tronchetti Pro-vera far crescere ulteriormente il debito

di Telecom Italia. Oggi il numero uno Franco Bernabè deve pagare gli interessi su un debito ancora troppo alto (all'incirca pari al fatturato) ed è poi costretto a distribuire un dividendo altissimo preteso dagli azionisti di controllo (Mediobanca e Intesa Sanpaolo su tutti) per rifarsi del pessimo affare fatto cinque anni fa pagando le azioni Telecom quattro volte il valore attuale.

In fondo alla classifica
Questa premessa è decisiva per capire le ragioni che tengono l'Italia in coda alle classifiche internazionali di diffusione della larga banda, cioè l'internet veloce. Nelle tecnologie digitali siamo al ventiduesimo posto in Europa. Le imprese italiane, secondo il ministero dello Sviluppo economico, pagano una sorta di tassa implicita di 15 miliardi di euro l'anno sotto forma di maggiori costi perla mancata dematerializzazione dei rapporti con lo Stato. La velocità effettiva dei collegamenti Internet degli italiani è inferiore a quella della Libia, dell'Ungheria e di Cipro, e superiore a quella del Kenya. L'Internet a larga banda (cioè con una banda di alcuni megabit, quasi esclusivamente con segnale compresso sul tradizionale cavo di rame detto comunemente doppino) ce l'hanno la metà delle famiglie italiane, contro il 70 per cento delle famiglie francesi e 1'80 per cento di quelle tedesche e britanniche. In cifra assoluta, ci sono in Italia 13,5 milioni di collegamenti abanda larga. Solo l'anno scorso in Cina sono state collegate con la fibra ottica 35 milioni di famiglie. In Italia la fibra ottica ce l'hanno 300mila utenze, grazie a vecchi investimenti fermi da tempo. Ma è nella fibra ottica tutto il problema, ed è la fibra ottica il campo di battaglia perla rete telefonica.

La fibra costa troppo?
L'Agenda digitale della Commissione europea fissa l'obiettivo di dare entro il 2020 un collegamento a 100 megabit di banda almeno a metà delle famiglie. Quella banda è una bomba, ci si può fare televisione ad alta definizione e altre cose che ancora nessuno immagina. Ma il segnale compresso sul doppino non arriva a 100 mega, al massimo può arrivare a 50. Per avere i 100 mega bisogna portare i cavi a fibra ottica dentro casa: una spesa pazzesca, stimata per l'Italia trai 15 e i 25 miliardi (è vero, è poco più del costo previsto per l'alta velocità ferroviaria tra Torino e Lione, ma rimane una spesa pazzesca, mentre il Tav è solo una spesa stupida). Bernabè ci va piano: non ha un soldo e appena gli avanza un euro è costretto a darlo a Mediobanca e Intesa Sanpaolo sotto forma di dividendo (la banca guidata per dieci anni dal ministro dello Sviluppo Corrado Passera è "banca per il Paese" solo nella pubblicità). Dice che non c'è domanda. Per il 2012-2013 spenderà solo 500 milioni di euro, poi arriverà a 2 miliardi in tutto entro il 2014. L'obiettivo è di portare la fibra ottica nelle prime cento città italiane, cioè al 25 per cento della popolazione. Ma non nelle case: la fibra arriverà ai cosiddetti armadi di strada, quelli a pochi metri da casa del cliente. In questo modo si potrà dare una banda di 50 mega. Più che sufficiente, dicono a Telecom, per gli attuali bisogni.
L'alternativa Metroweb
Poi c'è Metroweb l'ambiziosa società controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti, con la quale condivide il presidente, l'ex ministro Franco Bassanini. Metro-web vuole spendere 4,5 miliardi di euro pubblici per portare la fibra ottica dentro casa agli abitanti delle prime 30 città italiane entro il 2015. L'idea della Cdp è evidente: vuole creare una società mista a cui Telecom conferisce la rete (che vale secondo le stime tra i 12 e i 18 miliardi) e Metroweb i soldi per fare gli investimenti. Sono in corso colloqui, come suol dirsi, senza che Bernabè impazzisca per il complicato affare. Un mese fa gli è piovuto dal cielo l'insperato soccorso del commmissario europeo Nee-lie Kroes, responsabile dell'Agenda digitale. La commissaria ha detto che per favorire gli investimenti in Europa bisogna dare briglia più sciolta agli ex monopolisti proprietari delle reti: cioè smetterla di imporre loro tariffe all'osso per l'accesso degli altri operatori telefonici alla rete. Se le grandi compagnie faranno più soldi con la rete, dicono a Bruxelles ribaltando una filosofia ultra-decennale, avranno più voglia di investire sulle reti di nuova generazione. Per i sostenitori di un nuovo grande investimento pubblico è una sconfitta. Per Bernabè una vittoria. Anche se al "sistema Paese" resta da vedere se i maggiori profitti promessi da Bruxelles saranno reinvestiti o finiranno in dividendi per Mediobanca e Intesa Sanpaolo.

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