martedì 23 ottobre 2012

venerdì 19 ottobre 2012

«Hanno violentato la suora»

L'appello. In primo grado furono emesse pene severissime. La difesa cita Enzo Tortora.
Il pg chiede la conferma delle condanne per padre Fedele e Gaudio
Di Roberto Grandinetti sul quotidiano della Calabria del 19/10/2012



Max The Fox - Marco Travaglio - Il Fatto Quotidiano

Max The Fox - Marco Travaglio - Il Fatto Quotidiano
“Ora è molto tardi per fare una legge sulle intercettazioni e del tutto inopportuno intervenire per decreto. Ma il problema c’è: non è giusto mettere sui giornali la vita privata delle persone. Leggiamo una valanga di intercettazioni che nulla hanno a che fare con vicende penali, ma sono sgradevolmente riferite a vicende personali. Non è una cosa positiva. Occorre proteggere i cittadini”.
Chi l’ha detto? Massimo D’Alema naturalmente. Puntuale come una merchant bank, ogni qualvolta B. è travolto in uno scandalo, arriva la Volpe del Tavoliere a levarlo d’impaccio. O almeno a fare pari e patta. Fa sempre così, da 17 anni.
Breve riepilogo delle puntate precedenti.
Nel ‘94 B. finisce nei guai a Milano per le tangenti alla Finanza: D’Alema finisce nei guai a Bari per un finanziamento illecito di 20 milioni dal re delle cliniche pugliesi, l’imprenditore malavitoso Cavallari (prescrizione).
Nel ’96 B. è politicamente morto e l’Ulivo di Prodi si accinge a una sonante vittoria: Max va in pellegrinaggio a Mediaset per esaltarla come “grande risorsa del Paese” e garantire che non la sfiorerà nemmeno con un dito. B. medita di ritirarsi a vita privata: D’Alema s’inventa la Bicamerale per riscrivere “insieme” la Costituzione, specie sulla giustizia, lo trasforma in padre ricostituente e manda in soffitta il conflitto d’interessi.
Nel ’98 Prodi e Ciampi portano l’Italia in Europa: Bertinotti li rovescia in men che non si dica e l’indomani D’Alema è già pronto con una maggioranza alternativa, rimpiazzando Rifondazione coi ribaltonisti di Mastella, Cossiga e Buttiglione e dichiarando morto l’Ulivo.
Nel ’99 Rete 4 perde la concessione, ma D’Alema – impegnatissimo a sponsorizzare i “capitani coraggiosi” Colaninno, Gnutti e Consorte per l’assalto a Telecom – la salva regalandole la licenza per trasmettere in proroga sulle frequenze che spettano a Europa7.
Nel 2001 B. risorge dalle sue ceneri e governa cinque anni: unica opposizione i girotondi, i pacifisti, i no global, infatti D’Alema raccomanda di evitare la piazza.
Nel dicembre 2005 B. è alla canna del gas, dopo aver perso le amministrative e le europee, mentre l’Unione di Prodi ha 15 punti di vantaggio in vista del voto politico del 2006: ma ecco saltar fuori le intercettazioni sull’ultimo colpo di genio di Max, l’appoggio alla scalata illegale dell’Unipol di Consorte alla Bnl (“Vai, Gianni, facci sognare!”). Pari e patta con le scalate di Fiorani e Ricucci ad Antonveneta ed Rcs sponsorizzate dal centrodestra. Così l’Unione si mangia quasi tutto il vantaggio e Prodi vinciucchia per 25 mila voti, troppo pochi per governare senza i ricatti dei partitini.
Nel 2009 B., dopo un anno di governo, è già alla frutta per lo scandalo D’Addario-Tarantini: ben presto si scopre che “Gianpi” le mignotte le portava nei giorni pari a Palazzo Grazioli e in quelli dispari a Sandro Frisullo, vicepresidente della giunta Vendola e dalemiano di ferro. Una Bicamerale a luci rosse.
Nel 2010 B. è di nuovo sputtanato dalle rivelazioni di Wikileaks: Max non può mancare e infatti salta fuori un cablo dell’ambasciatore Spogli a Washington su quel che gli ha confidato D’Alema nel 2007: “La magistratura è la più seria minaccia per lo Stato italiano”. Infatti i giudici baresi arrestano anche l’altro assessore dalemiano di Vendola, Alberto Tedesco, provvidenzialmente rifugiatosi al Senato.
Nel 2011 B. perde comunali e referendum: D’Alema offre un bel governo istituzionale col Pdl. Scandalo P4: Bisignani trafficava con vari ministri, ma accompagnava pure il gen. Poletti da D’Alema (e da chi, se no?). Ora B. ci riprova col bavaglio ai giornali che pubblicano intercettazioni pubbliche. Max The Fox concorda, ma dice che “per una legge è tardi”. Ci penserà lui quando tornerà al governo. Per lui la missione del centrosinistra è sempre stata questa: completare l’opera del centrodestra. Il guaio è che quegli stronzi degli elettori non l’hanno ancora capito.
Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2011

giovedì 18 ottobre 2012

Cosenza, la beffa dei cori razzisti

Una decisione assurda per fatti mai avvenuti al San Vito. Mortificata la storia di un intera città
Il giudice sportivo punisce i tifosi rossoblù, da sempre contro le discriminazioni
Di Alfredo NardiAntonio Morcavallo sul quotidiano della Calabria del 18/10/2012



Scrive il quotidiano:
La società è chiamata a farsi sentire.
Anche, per difendere il proprio buon nome che la propria tifoseria si è guadagnato in decenni di partite, curve, trasferte in giro per l'Italia.
Una tifoseria che ora si trova multata come la Juve, il Verona, il Padova, il Brescia, il Grosseto e l'Atalanta: «per denigrazione per motivi di razza».
 Basti ricordare l'impegno degli Ultrà Cosenza al fianco di Padre Fedele Bisceglia, sin dagli anni Ottanta, in Africa per cercare di portare un aiuto agli ultimi.
Altro che razzismo.


domenica 7 ottobre 2012

Reggio Calabria, impiccata al cappio della ‘ndrangheta

Di Enrico Fierro sul fatto quotidiano del 07/10/2012

La città è col cappio al collo.
Stretto da una classe dirigente di ex fascisti diventati berlusconiani in doppio petto che ha portato il Comune sull’orlo del fallimento, infarcito la Regione di onorevoli che si inginocchiavano davanti a un boss in cambio di voti, o che al Café de Paris brindavano con mafiosi calabro-lombardi, oppure  – ed è l’infamità più grande – che ingannavano giovani disoccupati promettendo inesistenti posti di lavoro.
REGGIO  Calabria aspetta e trema.
Ormai non ci saranno più rinvii, il prossimo consiglio dei ministri deciderà se sciogliere il consiglio comunale per mafia e inviare una task-force di commissari.
Perché la ‘ndrangheta comanda a Reggio, ha eletto consiglieri comunali, ha parenti che sono pure assessori, è dentro le municipalizzate.
Il governo deciderà martedì, è la voce che rimbalza nei corridoi di Palazzo San Giorgio, la sede del Comune. E allora gli uomini di Berlusconi nella Fortezza Bastiani azzurra in riva allo Stretto, si ricordano di essere anche gli improbabili eredi di Ciccio Franco, il leader della rivolta del 1970.
Si appellano alla “rigginità”e chiamano alle armi.
Un manifesto firmato da 500 “personalità”, una manifestazione di studenti al grido d“non commissariate il nostro futuro”.
Due flop.
Perché alcuni firmatari dell’appello si sono dissociati e gli studenti in piazza erano una trentina.
Non è più tempio di rivolte.
MA DI CACCIA ai nemici sì, nel regno di Giuseppe Scopelliti, l’ex giocatore di basket diventato prima sindaco della città e poi governatore della Calabria.
“Vogliono alla gogna i nemici della città, i pochi non allineati al sistema. La verità è che stanno perdendo la testa, sentono che la stagione dell’impunità è finita e puntano sull’inganno della regginità. Come dire? Se finiamo nel baratro noi, ci finite tutti”.
La scrittrice Paola Bottero affonda senza pietà le mani negli angoli più oscuri del potere e nelle pieghe più purulenti della sua città.
“Reggio è grigia –dice – perché ormai ovunque, anche dove le ‘ndrine non sono arrivate, si respira questa cultura mafiosa, si cerca l’appartenenza a questa o quella fazione”.
Tremano i palazzi della politica e i loro voraci abitanti, portaborse, consulenti, gente che vive all'ombra del potere.
Guardano con allarme alle decisioni di Roma, e ancora di più alle notizie che filtrano dai brutti uffici del Cedir.
Un ginepraio di cemento e vetri dove lavorano i pm dell'antimafia.
Si parla di inchieste che colpiranno i “centri di potere della città ancora nell’ombra”, la massoneria e quei “tavolini” che guardano con interesse sia a destra che a sinistra.
Chi si gioca tutto è Giuseppe Scopelliti, l’inventore del “Modello Reggio”, festa, farina e forca (con le passeggiate in centro di Valeria Marini e dei Lele Mora boys) e l’illusione della città metropolitana.
Il risultato è un debito del Comune impossibile da quantificare e un disavanzo che oscilla tra i 160 e i 180 milioni.
Lui, il sindaco Demi Arena, e i politici che gli fanno da contorno, suonano la carica di una improbabile riscossa.
E negano un dibattito sulla legalità chiesto da un migliaio di aderenti all’associazione “Reggio Non Tace”. Brava gente che si è dovuta rivolgere al Tar per vedersi riconosciuto il diritto a un’assemblea sulla legalità, che il sindaco non vuole fare.
A tutti i costi, anche appellandosi al Consiglio di Stato.
Mezzucci.
L’eclissi violenta di un potere è iniziata.
Altri uomini, con insegne politiche diverse, sono pronti a sedersi allo stesso tavolino con i centri di potere occulto per fare il gioco di sempre.
Mangiarsi Reggio.

venerdì 5 ottobre 2012

«Non chiamatemi rottamatore»

L'ex sindaco parla dello stato di salute del Pd, i "guasti" delle preferenze e degli errori del passato

Salvatore Perugini spiega perché ha scelto Renzi, oggi in arrivo in città

Intervista di Maria Francesca FortunatoSalvatore Perugini sul quotidiano della Calabria del 05/10/2012




«Io sono un malandrino»

I dialoghi intercettati di Fuoco, principale indagato dell’inchiesta
Di Marco Cribari su Calabria ora del 04/10/2012

Oscar Fuoco non è il presidente, né un alto dirigente dell'Aterp.
Addetto alla manutenzione, rispondeva agli ordini del suo capoufficio, Giovanni Mazzuca, ma solo sulla carta.
«Sennò lui come ci diventava capoufficio? Ce l'ho fatto diventare io», spiegava lui stesso al telefono, ignorando di essere intercettato. Un semplice impiegato, dunque, ma in grado di influire sulle nomine dei funzionari, di redigere ordini di servizio per l'affidamento dei lavori e, più in generale, di determinare tutto ciò che c'era da determinare all'interno dell'azienda delle Case popolari.
Bum, dirà qualcuno, ma esagerato o no che sia, sembra che i politici e gli amministratori locali si rivolgessero effettivamente a lui per avere informazioni o, come scrive il gip: «ottenere trattamenti di favore».
Dal canto suo, poi, Fuoco non faceva fatica a riconoscere su di sé i segni del comando: «La differenza tra me e te, sai qual è? - raccontava a un compiacente interlocutore, vantandosi di una precedente conversazione avuta con un superiore in grado - Io vengo con il vestito, io cammino con un orologio, un Rolex, io cammino
con una macchina che costa. Questa è la differenza tra me e te».
Un punto di vista oggettivo, secondo lui, talmente pacifico da consentirgli di scrutare l'anima del prossimo («Capisco perché ti suscito invidia, ma non è colpa mia se sei nato così»).
Perché nel suo disegno d'onnipotenza, che ormai trascendeva quasi dalla dimensione terrestre, Oscar Fuoco non era più un semplice dipendente dell'Aterp: Oscar Fuoco, semmai era l'Aterp. «Se io mi prendo un impegno, per me è un impegno personale. Non c'entra l'Aterp, c'entra Oscarino Fuoco».
Basta il nome, insomma, soltanto quello.
Anche perché, «io sono un malandrino», diceva con orgoglio al telefono.
Disinvolto, forse troppo.
Probabilmente, fu questo uno dei motivi per cui, a metà degli anni '90, anche lui si ritrovò coinvolto nel processo “Garden”.
Proprio così, la maxi-inchiesta contro le cosche cosentine, faceva registrare il nome di Oscar Fuoco al numero sedici nell'elenco degli imputati.
Erano i tempi in cui curava le aste per conto del Comune, ma a un certo punto si ritrovò anche lui nel tritacarne giudiziario perché, un bel giorno, il boss pentito, Franco Pino, si ricordò di lui: «E' stato associato a noi. Siamo, diciamo, all'81, ma per un brevissimo periodo, si può dire due mesi, tre mesi, quattro mesi, non di più. Forse sono anche troppo quattro mesi».
E difatti, nessun altro collaboratore di giustizia confermò quelle dichiarazioni. Da Ciccio Tedesco a Roberto Pagano, passando per Angelo Santolla e Nicola Notargiacomo, nessuno aveva sentito parlare di Oscar Fuoco come “affiliato” a un gruppo criminale, tant'é che il verdetto finale fu di assoluzione «per non aver commesso il fatto».
Pagò, in quel caso, le cattive frequentazioni di gioventù e qualche intemperanza di troppo, ma quel processo “Garden” segnò anche il de profundis del Fuoco “malandrino”, o presunto tale.
Fu un brutto momento, ma il Nostro ne uscì alla grande, tant'é che, dieci anni dopo, nel 2006, eccolo candidato alle elezioni comunali nella lista “La Rosa nel Pugno”, a sostenere la candidatura di Giacomo Mancini a sindaco.
Risultato lusinghiero (144 preferenze), ma niente elezione in Consiglio.
«Lo so, suscito invidia. Perché purtroppo il carattere è questo», dirà in seguito al solito e sempre più ammirato interlocutore.
Per convincere il giudice, però, serviranno altri argomenti.

giovedì 4 ottobre 2012

Aterp, la "filiera istituzionale" dell'abusivismo - Corriere della Calabria

Aterp, la "filiera istituzionale" dell'abusivismo - Corriere della Calabria

La “filiera istituzionale” di Oscar Fuoco partiva da casa (tra gli indagati ci sono suo figlio, Oscarmaria, e sua moglie, la dipendente dell'Ufficio anagrafe del Comune di Cosenza, Maria Leonetti) e finiva nelle stanze dell'Aterp e di Palazzo dei bruzi. Nei faldoni custoditi in Procura sono finiti dirigenti e dipendenti. Colletti bianchi responsabili, secondo i magistrati, di aver chiuso un occhio e agevolato gli affari di Fuoco e dei clan cosentini che gli si rivolgevano.
Il fulcro del sistema era il funzionario dell'agenzia per l'edilizia popolare, che conosceva bene le condizioni di illegalità ma si guardava dal denunciarle. In piazza Clausi Schettini una serie di immobili non abitabili era stata trasformata in appartamenti. E Fuoco, secondo la Procura, era accondiscendente con i locatari. Di più: nella rete dell'inchiesta finisce anche Giuseppe Marchese, ex direttore generale dell'Aterp, che il 5 marzo 2010, presentava «all'Ufficio tecnico del Comune di Cosenza, richiesta del permesso di costruire per l'ampliamento e il cambio di destinazione d'uso dei locali» di quell'immobile.
È come se tutto il sistema si muovesse per agevolare gli interessi dei “proprietari” abusivi di quegli alloggi. Perché Pietro Mari, direttore del settore tecnico dell'Aterp e già storico esponente del socialismo manciniano (è stato anche assessore provinciale all'Urbanistica), «per aderire a “reiterate richieste verbali da parte di cittadini, accompagnate anche da presentazioni da parte di consiglieri circoscrizionali”, chiedeva di predisporre un progetto per la trasformazione di portici di fabbricati Erp siti in via Popilia, in locali commerciali». Un modo per trasformare in negozi delle strutture abusive.
L'unico ad accorgersi che qualcosa non va è un tecnico del Comune (al quale Fuoco fa capire che «gli abusi edili erano stati commessi da persone poco raccomandabili»). La sua segnalazione negativa arriva al Comune. E lì c'è un nuovo colpo di scena: la segnalazione «veniva ricevuta personalmente, in data 14 giugno 2010, dall'architetto Sabina Barresi, dirigente del settore Pianificazione del territorio del Comune di Cosenza, la quale, tuttavia, anziché provvedere alla demolizione degli abusi, confermava il parere favorevole al rilascio del permesso».
Dal direttore generale al direttore del settore tecnico fino al dirigente comunale: tutti insieme nell'iter che agevola le occupazioni abusive. Tutto da passare al vaglio delle indagini in corso. Ma anche tutto piuttosto inquietante.
Pratiche che passavano di livello in livello. Partendo dal più alto, quello di Giuseppe Marchese, il direttore generale «che qualificava gli interventi come “ampliamento” laddove, invece, si trattava di immobili interessati da interventi edilizi abusivi già realizzati e non sanabili in quanto in contrasto con gli strumenti urbanistici», per spingersi fino a quelli intermedi. Per i magistrati, Pietro Mari ha una «condotta partecipativa alla realizzazione dei falsi ideologici», perché avrebbe spinto per la sanatoria degli abusi e per la successiva realizzazione delle nuove attività commerciali.
Tutti d'accordo, secondo l'accusa, dietro la “sapiente” regia di Oscar Fuoco. L'anello di congiunzione tra i clan che avevano bisogno di favori “edilizi” e i colletti bianchi. E l'uomo di riferimento delle ditte che volevano lucrare sui lavori dell'Aterp. Un filone dell'inchiesta della Procura di Cosenza si occupa anche di questo aspetto e della curiosa assegnazione di alcuni lavori di “somma urgenza” per una frana a Castiglione Cosentino. Peccato che i lavori siano stati affidati a quasi tre anni dall'evento. Un altro dei paradossi del sistema Aterp. Che si cibava, secondo i magistrati, anche della diffusione di dati riservati. In questa branca dell'inchiesta sono indagati la moglie di Fuoco, Maria Leonetti, e Raffaele Gentile, dipendente dell'Aterp e sindacalista della Uil, fratello di Pino e Tonino Gentile, rispettivamente assessore regionale e senatore del Pdl.

mercoledì 3 ottobre 2012

Parte l’assalto dei renziani a un Pd sempre più diviso

Servizi di Saverio Paletta su Calabria ora del 03/10/2012

  • Cresce il sostegno al “rottamatore”, che venerdì torna in Calabria

    Certe pulsioni sono come il mare: non c’è diga che basti a trattenerle, se non si prepara per tempo un
    sistema di canali che le indirizzino e, perché no?, a volte le smorzino. E che questi canali fossero i congressi lo dimostra il consenso che Matteo Renzi sta riscuotendo in Calabria, dove riapproderà venerdì. Il toscanaccio non ha ancora varcato Lagonegro che già le file dei “suoi” crescono di
    ora in ora. Già: senza dibattiti pubblici e votazioni interne in che altro modo potrebbe sfogarsi la dialettica interna del Pd? Questo per restare alla “fisiologia”. Ad essere più maligni, si potrebbe chiedere: in che altro modo potrebbero trovare spazi adeguati gruppi e personalità che soffrono il
    commissariamento come una camicia di forza? Chiaro che, in questa situazione, le primarie prendano il posto dei congressi mancati.
    Ora, forse i comitati pro Renzi non sono (ancora) una corrente. Ma le somigliano moltissimo sin d’ora. E, come ogni corrente che si rispetti, hanno la loro brava “mozione”: un documento, straordinariamente sobrio se comparato ai papelli cui il Pd calabrese ci ha abituato per anni, firmato da un bel po’ di dirigenti e notabili del partito (per quanto ancora?) di Bersani. Tra questi spiccano Demetrio Naccari Carlizzi (assemblea nazionale Pd), per il comitato Renzi Adesso di Reggio Calabria, Giuseppe Basilee Stefano Viola, per il comitato Renzi Adesso della Locride, Peppe Campisi (il sindaco di Ardore), Vincenzo Bombardierie Pino Mammolitiper il comitato Renzi Adesso della Piana, e Michele Spanò. Su Crotone il renziano di punta è Pino Megna, dell’assemblea nazionale del
    Pd, e a Vibo Domenico Petrolo. A Catanzaro reggono il vessillo toscano Tonino Costantino(consigliere comunale a Lamezia), Francesco Cortellaro (del comitato Renzi “Adesso” Lametino), Michele Drosi(il sindaco di Satriano) e Ernesto Palma, docente universitario a Catanzaro. E ancora Mario Muzzì, già candidato alla segreteria regionale. Per tacere del battaglione cosentino, capitanato da Salvatore Perugini, l’ex sindaco di Cosenza e in cui spiccano vari esponenti politici, tra cui Ernesto Magorno, il sindaco di Diamante. E proprio a Cosenza, dove tornerà venerdì, a un anno e mezzo di distanza dalle precedenti amministrative, in cui si era speso per Perugini, il sindaco di Firenze inizierà il tour calabrese. E il documento? È un piccolo vademecum politico, in cui si parte da considerazioni generali sulla Calabria e in cui, per quanto sfumate, le critiche alla due giorni lametina “baciata” da Bersani sono percepibili: «Il metodo dell’incontro e il messaggio finale tradiscono una sorta di debolezza di visione che rischiano di ridurre lo sforzo alla celebrazione di un rito e di un passaggio solo formale perché senza capacità di innovazione». Stesso discorso per la “mozione Calabria”, ritenuta poco più che un’intenzione lodevole. Va da sé che il succo sta altrove, dove gli autori della mini mozione affondano il coltello. «Troppo spesso abbiamo subito l’imposizione di una parte di rappresentanti ormai lontani dalla nostra regione, che non conoscono realmente i problemi dei territori e che sono scelti a dispetto del consenso popolare», scrivono i renziani. Che passano dai problemi della democrazia punto a quelli, che a loro premono di più, della democrazia interna: «Noi non proponiamo alcuna apologia delle preferenze ma riteniamo che ormai si sia superato il limite della logica nella difesa diretta o indiretta di un sistema che è fondato su una cooptazione che ha già dato, almeno in Calabria, pessimi frutti». E giù un’altra “botta”: «Non è un caso che i primi dei non eletti del Pd alla Camera ed al Senato siano addirittura i fratelli dei sindaci Pdl di Catanzaro e Reggio». Serve altro per far capire che le primarie si annunciano senza esclusione di colpi?

  • Aspettando il rottamatore
    I “renziani” affilano le armi
    Perugini guida il gruppo che sostiene il sindaco di Firenze

    Sobrio e moderato in consiglio comunale, Salvatore Perugini resta pacato pure quando si prepara a salire sulle barricate. Cioè ad accogliere per la seconda volta in città Matteo Renzi, che inizierà proprio da Cosenza il suo “tour” calabrese venerdì prossimo. Le amministrative sono lontane e parecchie cose sono cambiate dall’ultima visita del rottamatore di Firenze. Allora, circa un anno e mezzo fa, il toscanaccio era venuto a dar forte all’ex collega sindaco cosentino. Altri tempi, altre ferite. Ora Renzi verrà per lanciare una sfida seria a tutta la classe dirigente del Pd: le primarie, vissute completamente “dal basso”, senza il contorno di parlamentari, consiglieri regionali e tanti amministratori “che contano”. Così è stato altrove e così in Calabria sarà “di più”. Il “rinnovamento”? «Non è una questione di anagrafe ma di idee e di proposte», ha dichiarato ieri al Museo del presente di Rende l’ex primo cittadino di Cosenza. «E io mi ritrovo in quelle di Renzi», ha chiosato. Perugini non si presenterà alla conta da solo: con lui ieri mattina c’era un gruppo di amministratori e dirigenti di
    partito di tutte le età, a partire da Ernesto Magorno per continuare con Giuseppe Rizzo, il sindaco di Cerzeto e Roberto Rizzuto, il suo collega di Villapiana. Più qualche outsider come Francesco Silvestri,
    consigliere comunale di Verbicaro di estrazione diessina. E non mancavano, visto che di rinnovamento trattasi, i giovani, con e senza virgolette, come Davide Lauria, il coordinatore dei renziani di Montalto Uffugo e Luigi Gagliardi, il responsabile provinciale dei comitati pro Renzi. Piccoli ma cresceranno? Difficile a dirsi, ma loro ci sperano: «La partecipazione si costruisce dal basso», ha insistito Perugini, a cui proprio non riesce di essere battagliero neppure quando combatte. Già, perché quando si parla di rinnovamento non c’è nulla da fare: tocca rimboccarsi le maniche e lottare. E poco importa che lo si faccia con la salacia toscanissima di Renzi o col vigore di molti di questi giovani che, negando a sé stessi ogni evidenza, si preparano a costruire una corrente.
    Che gli riesca o meno, è da vedere. Loro ce la mettono tutta per far capire che la “democrazia dei sindaci” è una cosa nuova e non un’aspirazione irrealizzata dei primi ’90. Di fronte al cambiamento ogni esigenza diventa secondaria. «O si cambia o si muore», ha dichiarato in una battuta finale Silvestri. A cui, con tutta probabilità, è sfuggito che questa frase era stato detta da qualcuno in ben altre situazioni e di ambienti politici ben diversi. Ora non resta che aspettare il toscanaccio.