I dialoghi intercettati di Fuoco, principale indagato dell’inchiesta
Di Marco Cribari su Calabria ora del 04/10/2012
Oscar Fuoco non è il presidente, né un alto dirigente dell'Aterp.
Addetto alla manutenzione, rispondeva agli ordini del suo capoufficio, Giovanni Mazzuca, ma solo sulla carta.
«Sennò lui come ci diventava capoufficio? Ce l'ho fatto diventare io», spiegava lui stesso al telefono, ignorando di essere intercettato. Un semplice impiegato, dunque, ma in grado di influire sulle nomine dei funzionari, di redigere ordini di servizio per l'affidamento dei lavori e, più in generale, di determinare tutto ciò che c'era da determinare all'interno dell'azienda delle Case popolari.
Bum, dirà qualcuno, ma esagerato o no che sia, sembra che i politici e gli amministratori locali si rivolgessero effettivamente a lui per avere informazioni o, come scrive il gip: «ottenere trattamenti di favore».
Dal canto suo, poi, Fuoco non faceva fatica a riconoscere su di sé i segni del comando: «La differenza tra me e te, sai qual è? - raccontava a un compiacente interlocutore, vantandosi di una precedente conversazione avuta con un superiore in grado - Io vengo con il vestito, io cammino con un orologio, un Rolex, io cammino
con una macchina che costa. Questa è la differenza tra me e te».
Un punto di vista oggettivo, secondo lui, talmente pacifico da consentirgli di scrutare l'anima del prossimo («Capisco perché ti suscito invidia, ma non è colpa mia se sei nato così»).
Perché nel suo disegno d'onnipotenza, che ormai trascendeva quasi dalla dimensione terrestre, Oscar Fuoco non era più un semplice dipendente dell'Aterp: Oscar Fuoco, semmai era l'Aterp. «Se io mi prendo un impegno, per me è un impegno personale. Non c'entra l'Aterp, c'entra Oscarino Fuoco».
Basta il nome, insomma, soltanto quello.
Anche perché, «io sono un malandrino», diceva con orgoglio al telefono.
Disinvolto, forse troppo.
Probabilmente, fu questo uno dei motivi per cui, a metà degli anni '90, anche lui si ritrovò coinvolto nel processo “Garden”.
Proprio così, la maxi-inchiesta contro le cosche cosentine, faceva registrare il nome di Oscar Fuoco al numero sedici nell'elenco degli imputati.
Erano i tempi in cui curava le aste per conto del Comune, ma a un certo punto si ritrovò anche lui nel tritacarne giudiziario perché, un bel giorno, il boss pentito, Franco Pino, si ricordò di lui: «E' stato associato a noi. Siamo, diciamo, all'81, ma per un brevissimo periodo, si può dire due mesi, tre mesi, quattro mesi, non di più. Forse sono anche troppo quattro mesi».
E difatti, nessun altro collaboratore di giustizia confermò quelle dichiarazioni. Da Ciccio Tedesco a Roberto Pagano, passando per Angelo Santolla e Nicola Notargiacomo, nessuno aveva sentito parlare di Oscar Fuoco come “affiliato” a un gruppo criminale, tant'é che il verdetto finale fu di assoluzione «per non aver commesso il fatto».
Pagò, in quel caso, le cattive frequentazioni di gioventù e qualche intemperanza di troppo, ma quel processo “Garden” segnò anche il de profundis del Fuoco “malandrino”, o presunto tale.
Fu un brutto momento, ma il Nostro ne uscì alla grande, tant'é che, dieci anni dopo, nel 2006, eccolo candidato alle elezioni comunali nella lista “La Rosa nel Pugno”, a sostenere la candidatura di Giacomo Mancini a sindaco.
Risultato lusinghiero (144 preferenze), ma niente elezione in Consiglio.
«Lo so, suscito invidia. Perché purtroppo il carattere è questo», dirà in seguito al solito e sempre più ammirato interlocutore.
Per convincere il giudice, però, serviranno altri argomenti.
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