La chiusura delle supercarceri, i collaboratori e le scelte del governo Prodi
Botta e risposta tra
Giovanni Maria Flick e
Marco Travaglio sul fatto quotidiano del 19/08/2012
Caro Direttore, una settimana fa (Il Fatto Quotidiano dell’11 agosto) Marco Travaglio si è chiesto: “Perché tanti ostacoli e resistenze alla verità sulle trattative Stato-mafia?”.
E si è dato la risposta: “Perché è al potere la stessa classe dirigente di vent’anni fa”.
SI SPIEGHEREBBE così – tra l’altro – l’asserita contrarietà del Pd alla ricerca della verità, a causa del coinvolgimento di molti “suoi” esponenti: “Le supercarceri di Pianosa e Asinara furono chiuse quand’era ministro della Giustizia il suo Flick e ministro dell’Interno il suo Napolitano, che subito dopo invocò una legge contro i pentiti (a suo dire ‘t roppi ’: i pentiti, non i mafiosi) e fu prontamente accontentato”. Le cose non andarono affatto così e il presidente Napolitano non ebbe alcun ruolo nella vicenda supercarceri. Mi permetta di ristabilire i fatti. In un successivo articolo, se vorrà ospitarlo, vorrei esprimere qualche riflessione. La verità è da me desiderata ed è a me cara quanto a lei e al suo vicedirettore, e soprattutto - in questo caso - agli oltre 117mila lettori che hanno già sottoscritto l’appello a sostegno dei magistrati di Palermo e Caltanissetta. Molti firmatari, ricorda lo stesso Travaglio, “non erano neppure nati” all’epoca dei fatti. Questo accresce la responsabilità e il dovere di chiarezza verso le nuove generazioni, da parte di tutti: rappresentanti delle istituzioni, politici, magistrati, anche giornalisti. La data di morte delle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara era già scritta sul certificato di nascita del 1992 (ed io, semmai, contribuii a prolungarne la breve vita): la legge sulle aree protette, in vigore da un anno, prevedeva l’istituzione dei Parchi di Pianosa e del-
l’Asinara, e la chiusura dei penitenziari lì presenti da oltre un secolo. Il Parlamento concesse tre anni, fino al 31 dicembre 1995. Nella legislatura successiva, e in vista della scadenza del termine, una risoluzione del deputato progressista Calzolaio fu approvata dalle commissioni Giustizia e Ambiente della Camera (e così fece il Consiglio regionale della Sardegna, anche reclamando un adempimento statutario: l’Asinara spettava al demanio regionale). Al governo Dini furono concessi solo sei mesi in più, fermo l’impegno “a dismettere le strutture carcerarie il prima possibile”. Tre decreti di proroga fino al 1999 non furono convertiti in legge dal Parlamento. Nel 1996 la nuova legislatura e il governo Prodi ereditarono questa situazione. La sensibilità per la tutela ambientale e dei parchi marini era altissima: ministro dell’Ambiente Edo Ronchi, già presidente dei senatori Verdi; sottosegretario il deputato Calzolaio. D’intesa con Ronchi proposi una proroga fino al 30 giugno 1998, ma il Parlamento fissò il termine “i mprorogabilmente non oltre il 31 ottobre 1997”.
In tutta la vicenda, come si vede, il presidente Napolitano non ebbe alcun ruolo.
LA SUCCESSIVA affermazione di Travaglio, apparentemente riferita solo al ministro dell’Interno, riguarda
l’“invocazione di una legge contro i pentiti”, per la quale “fu prontamente accontentato”. Se colpe ci furono, ne sono corresponsabile: sono orgoglioso di aver collaborato con il collega Napolitano, avvalendoci entrambi della straordinaria competenza di Loris D’Ambrosio (allora mio capo di gabinetto alla Giustizia) vero autore del disegno di legge per riformare la disciplina dei collaboratori di giustizia, firmato da Napolitano e me (e anche da Ciampi) nel marzo 1997, approvato dal Parlamento con molte modifiche,
tutt’altro che prontamente, nel 2001 due anni dopo la caduta del governo Prodi. Non c’è nulla di oscuro in quel disegno di legge, nulla contro l’istituto dei collaboratori di giustizia. Potrei tentare di dirlo in tanti modi, ma credo siano più efficaci e credibili le parole di Maria Falcone, sorella di Giovanni, nell’introduzione al volume “Testimoni e collaboratori di giustizia”, che Loris D’Ambrosio pubblicò nel 2002: “Il dato storico e statistico ci dice che dopo le stragi il numero dei pentiti è lievitato in modo esponenziale (…) I ministri dell’Interno e della Giustizia presentarono nel 1997 un disegno di legge con le soluzioni normative necessarie per rendere il sistema più trasparente senza pregiudicarne l’efficacia”.
Nel 1996, 7.020 persone protette, tra cui 1.214 collaboratori e 5.747 familiari. Grazie per l’ospitalità.
Giovanni Maria Flick
giurista, ex Guardasigilli del governo ProdiRingrazio il professor Flick per le sue riflessioni e i suoi ricordi che però, lo dico con rispetto ma con altrettanta franchezza, non mi convincono. Naturalmente gli fa onore il suo sforzo di tenere il presidente
Napolitano al riparo da ogni critica, al punto da trasformarlo da energico ministro dell'Interno del primo governo Prodi a semplice passacarte di decisioni altrui. So bene che le supercarceri di Pianosa e Asinara,
bestie nere dei boss mafiosi, furono chiuse con la motivazione ufficiale dei parchi. La politica ha il compito di scegliere e il Parlamento e il governo di allora fecero la loro scelta: in un (rarissimo, vedi 40 anni di Ilva)
empito di ecologismo, restituirono le due oasi marine alla loro vocazione turistica e ambientale, di conseguenza, rispedirono vicino a casa i boss mafiosi che dal 1992 vi erano reclusi al 41-bis: un 41-bis aggravato dalla lontananza dalle “famiglie ” ( naturali e mafiose) che, come le carte delle inchieste dimostrano, era la prima richiesta dei boss allo Stato. Una maggioranza determinata a respingere non solo quelle richieste,
ma anche il semplice sospetto di cedervi, avrebbe potuto decidere diversamente. Ma non lo fece. E questo è un fatto. Un altro è l'effetto sortito dalla “r iforma”dei pentiti, invocata da Napolitano nel 1996-‘98 (“I pentiti sono 1200, troppi, di più non ne possiamo tollerare”), scritta da Flick e da Loris d’Ambrosio e approvata nel 2001: le collaborazioni di mafiosi con la giustizia che, grazie alla vecchia normativa ispirata da Falcone, erano saliti nel 1993-‘97 a 1500, restarono dopo il 2001 pressoché invariate e i nuovi casi di pentitismo si contarono da allora in poi sulle dita di una mano. Anzi molti pentiti addirittura ritrattarono, pentendosi di essersi pentiti. Il perché è noto: benefici ridotti e sei mesi di tempo massimo per dire tutto (anche con alle spalle carriere mafiose cinquantennali). Un uomo prudente come Piero Grasso, allora procuratore di Palermo, commentò quella legge sciagurata con queste lapidarie parole:“Al posto di un mafioso, non mi pentirei più”. Antonio Ingroia, in un recente saggio, ha ricordato che quella legge, “palesemente ispirata da
forti pregiudizi negativi nei confronti dei collaboratori, determinò... una drastica riduzione del numero dei nuovi collaboratori di giustizia... Fu come il laccio emostatico che consenti àlle organizzazioni mafiose di arrestare l’emorragia di uomini e notizie per la dissociazione di massa che si stava realizzando al suo interno. La mafia riuscì così a limitare i danni e a superare una crisi che prima della legge pareva definitiva. Sotto il
profilo qualitativo, si verificò una taratura verso il basso della qualità delle dichiarazioni dei collaboratori che sembrarono percepire subito il segnale lanciato dallo Stato. Era finita la ricreazione, bisognava rientrare nei ranghi. Certi argomenti tornavano ad essere tabù. E infatti improvvisamente i collaboratori, tranne poche eccezioni, hanno smesso di fornire nuove notizie sui terreni più delicati, come quelli dei rapporti mafia e
politica, mafia e istituzioni. A ogni modo, il risultato fu l’improvvisa neutralizzazione delle potenzialità di uno strumento investigativo e di un mezzo di prova straordinario e indispensabile qual era stato fino a quel
momento”. Mi limito ad aggiungere un altro fatto: che tra le richieste del papello di Riina c’era, insieme allo smantellamento del 41-bis e delle supercarceri di Pianosa e Asinara e a un migliore trattamento delle “famiglie ” dei detenuti, anche la legge dei pentiti (quella originaria, che li incentivava, non li scoraggiava). Se aggiungiamo che negli anni 90, al ministero della Giustizia e precisamente al Dap, vi furono varie manovre per favorire la “dissociazione” a costo zero dei boss (altro punto qualificante del papello), le conclusioni possibili sono solo due: o la trattativa fra pezzi dello Stato e Cosa Nostra c’è stata, e non s’è certo fermata al 1994; oppure Totò Riina è Nostradamus.
Marco Travaglio